Nei secoli passati la fabbricazione della pece ha rappresentato un’attività importante in varie parti del nostro Paese, soprattutto nelle regioni del Sud. Anche nelle Alpi, però, era tutt’altro che sconosciuta. Sul sito del museo svizzero di Ballenberg viene infatti segnalato che, verso la fine del XVI secolo, nei dintorni di Visp erano attivi una sessantina di resinatori.
L’estrazione della resina da pini, abeti bianchi e larici era praticata in diverse valli ossolane. In generale venivano preferiti gli alberi di una certa grandezza. Riguardo ai pini, vicino alla base si decorticava un’area nella quale eseguire delle incisioni convergenti verso il basso in modo da poter raccogliere la resina in un contenitore. Nel caso dei larici, si praticava un foro in profondità al quale applicare una canaletta di legno. Diverso il discorso per gli abeti bianchi, che venivano parzialmente decorticati poiché contengono resina solo nella corteccia. Oltre a queste operazioni di raccolta, che non comportavano la distruzione della pianta, la pece poteva essere estratta tramite essudorazione, cioè riducendo il legno in pezzi (tapiulé, in dvarun) e mettendolo a scaldare in apposite stufe così da provocare la liquefazione della resina, che poi veniva fatta colare in una canaletta di legno e raccolta in un contenitore metallico nel quale si raffreddava. Attraverso operazioni di filtrazione, riscaldamento e indurimento all’aria, dalla resina si ottenevano vari tipi di pece e trementina.
Parte della pece ossolana veniva inviata ai cantieri navali di Genova per calafatare, cioè rendere impermeabili, gli scafi delle imbarcazioni. Localmente, era usata allo stesso scopo per diversi oggetti, dalle botti alle calzature, per i quali si richiedeva una buona tenuta stagna. Molti anziani ricordano infatti che la canapa trattata con la pece non marciva, e i relativi spaghi erano quindi utilizzati per cucire gli scarponi. Altri usi della pece andavano dalla medicina tradizionale, come cicatrizzante, alla fabbricazione di sapone.
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