Il territorio ossolano è ricco di acqua che, convogliata nei suoi bellissimi torrenti, scende copiosa dalle montagne e confluisce nel fiume Toce dopo aver alimentato un ingente numero di fontane. Ci sono però molte aree che, pur offrendo pascoli adatti all’inalpamento, non beneficiano di corsi d’acqua. In tal senso, particolarmente indicativo risulta l’Ovigo di Varzo, i cui strati di gneiss presentano un angolo di inclinazione di circa 5-10 gradi degradante verso sud. Ciò comporta un deflusso delle acque di superficie verso il versante bognanchese, non a caso ricco di sorgenti e corsi d’acqua tanto da essere definito “Il paese delle cento cascate”, mentre a nord gli alpigiani hanno dovuto adottare diverse strategie per assicurarsi un sufficiente rifornimento idrico. Una modalità di vecchia data è rappresentata dalla raccolta dell’acqua piovana in vasche scavate nella pietra. In località La Feia ne è visibile una di forma pentagonale (Foto 1), profonda circa 20 cm, i cui lati interni misurano 184x70x150x70x50 cm, con incisa la data del 1786, una croce e le iniziali del committente. La sua realizzazione deve aver richiesto almeno un mese di lavoro a tempo pieno da parte di uno scalpellino esperto. L’insolito formato è dovuto alla necessità di ottimizzare quanto offerto dalla natura, e cioè un grosso sasso caduto in occasione di una delle tante frane succedutesi nel corso dei secoli. Non essendoci acqua sul posto, in mancanza di pioggia questa veniva portata a spalla in contenitori riempiti presso la piccola fonte del Curticc, sita a circa 15′-20′ di distanza. Un’altra vasca analoga è presente in località Cià d’Zora di Savaneria (Foto 2). In altri casi si cercava di ottimizzare lo scarso apporto idrico fornito da piccole sorgenti locali. In località Pizzun, presso l’Alpe Nügn, si trova un abbeveratoio realizzato con lastre di gneiss unite fra loro da inserti metallici, così da formare tre vasche nelle quali l’acqua, che sgorgava a una temperatura piuttosto bassa, poteva defluire in successione riscaldandosi un po’ (Foto 3). Per esigenze di pulizia o nel caso di problemi a una delle tre parti, il contenuto delle altre due poteva essere mantenuto. Un manufatto analogo è visibile presso l’Alpe Albiona di Fuori (Foto 4), mentre sopra l’Alpe Albiona di Dentro si era preferito utilizzare i classici tronchi di larice incavati, denominati büi (Foto 5). Entrambe queste strutture erano rifornite da un vero e proprio acquedotto in canalette di larice (Foto 6) che, da due sorgenti situate in località Acqua Fredda, scendeva per più di un chilometro, con un dislivello di alcune centinaia di metri. All’epoca della sua realizzazione, la fascia del larice terminava ad altitudini inferiori rispetto a oggi. Pertanto, dovendo disporre di alberi diritti e di un certo calibro, li si era dovuti tagliare ben al di sotto dei pascoli di Albiona, cioè a meno di 1700 metri di quota, per poi trasportarli a oltre 2000 metri. Alcuni tratti del condotto sono visibili ancora oggi, così come i piloni in pietra (Foto 7) sui quali la condotta scorreva sopraelevata per superare le parti declivi. Il manufatto era talmente efficiente che alla fine degli anni ’30 riusciva a soddisfare le esigenze degli alpigiani e di ben 120 bovini inalpati. Pur ritenendo che si trattasse in parte di animali giovani e pertanto con esigenze idriche minori, si può ipotizzare che l’acquedotto fosse in grado di superare la portata di 150 litri all’ora. Questa variava però a seconda delle condizioni meteorologiche, poiché il sole provocava una marcata evaporazione lungo il percorso. L’opera richiedeva una cura continua per individuare e sostituire le canalette in cattivo stato. A volte, poi, bisognava intervenire con urgenza per rimettere in sede qualche tratto spostato dal vento, oppure dal passaggio di capre o altri animali.
Essendo in funzione l’acquedotto, ad Albiona le cisterne di raccolta dell’acqua piovana mediante la canalizzazione dello scolo dai tetti sono state realizzate soltanto a metà del Novecento, con un ritardo di circa mezzo secolo rispetto ad altre parti dell’Ovigo. In località Prato Grande ne è infatti presente una del 1888 (Foto 8), mentre all’Alpe Wolf se ne può ammirare un’altra, di pregevole fattura, che reca la data del 1896 (Foto 9). La grande cisterna di Albiona di Dentro (Foto 10), entrata in funzione nel 1949, è scavata a mano nella roccia e può contenere fino a 50 metri cubi di acqua, mentre la cisterna di Albiona di Fuori (Foto 11), di minori dimensioni, è stata realizzata l’anno seguente. Molte altre, tutte risalenti alla prima metà del ‘900, sorgono in vari punti della catena. Nella realizzazione veniva preferita la forma rotonda (in alcuni casi, come nel caso della cisterna di Wolf, mantenuta anche nella struttura di rivestimento esterno) per due motivi: innanzitutto, la mancanza di angoli agevolava le operazioni di pulizia; in secondo luogo, la circonferenza assicura la maggiore superficie nel minor perimetro, per cui ottimizzava la resa del manufatto riducendo il lavoro di scavo e di copertura. Gli anziani ricordano che le grondaie e i canali di convoglio dovevano essere rigorosamente di legno per evitare che l’acqua, scorrendo su parti metalliche, assumesse un sapore sgradevole. Le cisterne dell’Ovigo erano tutte coperte e l’acqua veniva raccolta tramite una carrucola con secchio accessibile attraverso una porticina dotata di chiavistello. Strutture analoghe si trovano anche alla Fraccia di Trasquera (Foto 12). Sopra l’Alpe Solcio di Varzo, invece, presso la località Il Rono c’è una vecchia stalla, chiamata non a caso Albinun (in molte parlate ossolane, per albi si intende un abbeveratoio, mangiatoia o vasca non collegata ad acqua corrente), sotto il cui pavimento era ubicata la cisterna (Foto 13) rifornita mediante canalette di larice che vi convogliavano l’acqua di scolo dal tetto.
A volte, la mancanza di acqua era dovuta all’ubicazione dell’alpeggio, situato in zone di displuvio arroccate sulla cresta di separazione tra due valli. Tali luoghi di spartiacque sono spesso indicati con un toponimo che testimonia la loro posizione “culminante”. Non a caso, su queste catene sono talvolta visibili delle vecchie cisterne, come alla Colma di Castiglione (tra valle Anzasca e Valle Antrona) e alla Colmine (tra Valle Divedro e Valle Antigorio). Su quest’ultima, la cisterna dell’Alpe Genuina, vuota e scoperchiata da tempo, permette di ammirare il duro lavoro di scavo nella roccia (Foto 14). Non molto distante, in località Colmine di Dentro, ce n’è un’altra, interrata, che presenta un sistema di prelievo tramite contrappeso (Foto 15), mentre nei pressi del bivacco degli Alpini, in località Colmine di Fuori, se ne trova una in pietra a secco, a cielo aperto, con i gradini infissi nel muro che permettono la discesa a semi-chiocciola (Foto 16) e, sul fondo, un ultimo tratto con una scala a pioli in legno. Fuori da entrambe ci sono ancora delle vasche in sasso, ciascuna scavata in un unico blocco (Foto 17). Riguardo alla Colma di Castiglione, i fianchi della catena presentano diverse sorgenti non solo nel fondovalle (Foto 18) ma anche nei tratti alti (Foto 19), tutti però sensibilmente più in basso rispetto ai buoni pascoli della parte sommitale; su quest’ultima, in località Erbalunga si possono vedere due cisterne le quali, contrariamente a quelle presenti in Val Divedro, hanno sezione grossomodo quadrata (Foto 20); degna di nota è la presenza di una pietra apotropaica di colore chiaro sul tetto di una di esse (Foto 21): per un bene prezioso come l’acqua, il ricorso a sistemi beneauguranti doveva ritenersi più che giustificato. Del resto, in località Cisore è ammirabile una fontana del 1846 (Foto 22) provvista, sulla sommità della colonna di adduzione, di un protome a forma di testa umana in pietra ollare (Foto 23), di sicuro significato apotropaico. Poco distante da Erbalunga, in località Ca’ di Marui, si trova una vasca a cielo aperto, anch’essa a forma di parallelogramma (Foto 24). Le cisterne scavate nel terreno della Colma di Castiglione sono oggi integrate da moderni serbatoi amovibili in materiale plastico (Foto 25), trasportabili dagli elicotteri.
Cisterne a cielo aperto si trovano in varie zone, come a Presa Bruciata, sopra Gondo (Foto 26) e all’Alpe Spino, sopra Monteossolano (Foto 27). Ai Pianezz, sopra Oira, è presente una cisterna coperta di epoca relativamente recente (Foto 28).
Una strategia particolare di approvvigionamento idrico era quella di intercettare l’acqua che percolava dal terreno soprastante. Nella faggeta sopra l’Alpe Algnime, sull’Ovigo di Varzo, è ancora visibile un büi, posto alla base di una roccia (Foto 29), nel luogo in cui dopo le piogge è raccoglibile un po’ di acqua che giunge dall’alto. Un’opera davvero notevole si può ammirare in località Monte, al confine tra i Comuni di Baceno e Premia, dove l’acqua che cola lungo una roccia viene intercettata da una fessura lunga alcuni metri, incisa trasversalmente in modo che vada a riempire un abbeveratoio, anch’esso scavato a mano nella roccia stessa e provvisto sia di foro di uscita, richiudibile, sia di troppopieno (Foto 30).
L’acqua non serviva soltanto per bere, lavare e cucinare. Spesso, infatti, veniva utilizzata come forza motrice, che in Ossola serviva soprattutto per le macine agricole, le segherie, i mulinetti per la macinazione della pirite aurifera e qualche piccolo laboratorio manifatturiero. A Varzo, in località Fontana, lo stesso corso d’acqua, nonostante la portata tutto sommato modesta, veniva efficientemente ripartito in più sezioni (Foto 31), poste sia in serie sia in parallelo, tali da alimentare delle vasche per l’allevamento delle trote, un lavatoio-abbeveratoio (Foto 32), un filatoio, un mulino e ben due segherie idrauliche per il legname.
Una funzione particolare della risorsa idrica era infine quella di equilibratore termico. Alle Corti del Dagliano sono ancora presenti dei caselli del latte (Foto 33), piccoli locali nei quali l’acqua veniva fatta scorrere lungo i margini del pavimento così da assicurare una temperatura costante: d’estate manteneva freschi carne e latticini, nei periodi più freddi impediva che la temperatura scendesse sotto zero.
Anche se è ubicata fuori dall’Ossola, non si può tacere di un’opera davvero incredibile concepita poco dopo metà Ottocento nella vicina Vallemaggia, la valle più grande della Svizzera italiana. Presso l’Alpe Vaccariscio, sulle alture sovrastanti la frazione Fusio del Comune di Lavizzara, gli alpigiani di un tempo hanno realizzato l’acquedotto di Canaa, una via d’acqua di oltre un chilometro di lunghezza, con ben 447 metri scavati nella roccia o costituiti da lastre di gneiss sorrette da muri a secco (Foto 34, 35 e 36). Utilizzato fino alla seconda metà degli anni ’50 e ancora oggi funzionante grazie a importanti opere di ripristino e mantenimento, il manufatto raccoglie l’acqua a 2070 metri di quota e la trasporta, con flusso regolato da una pendenza del 6% accuratamente studiata, fino a 2043 metri, per poi scendere a rifornire i nuclei di Córt du Sass e Córt Mézz che ne sono privi.
Realizzato da: Printgrafica Pistone e Chimbo